Testi vincitori del Concorso

SARA BRIVIO (I. I. S. A. Greppi, Monticello B. za)

Primo classificato


Finché una mattina, gettando l‘ultima manciata di pane, sentii dei passi, alle mie spalle: foglie secche che facevano un piacevole scricchiolio, il tipico rumore dell’autunno. Ero pronto a voltarmi, per sbiascicare il solito “buondì” all’anziano signor Guido che, ormai da tempo, trascorreva le giornate in riva al lago, a raccontare a qualche passante annoiato la sua gioventù passata nelle sterminate e fredde pianure russe, lottando per quella che gli altri definivano patria, ma che lui e i suoi compagni alpini, deceduti, chiamavano vita. Ad un tratto, però, si fece tutto silenzioso; il rumore delle foglie si interruppe e accanto a me si fermò un uomo. Mi voltai. Nonostante il freddo, portava dei pantaloni pieni di toppe, una maglia di cotone e un paio di scarpe che, a giudicare da me, parevano arrivare direttamente dal fondo del lago. Sulle spalle, un borsone nero con gli angoli sgualciti mostrava all’interno ombrelli ancora incartati che, di lì a qualche ora, sarebbero stati in mano a qualche sfortunato ritrovatosi in mezzo ai primi acquazzoni autunnali. Poi lo guardai meglio in viso. Un cappellino di lana gli copriva la tonda testa nera e un debole sorriso mostrava i denti che, in contrasto con il viso scuro, apparivano di un bianco davvero brillante. Ma che dico un uomo; quello era solo un ragazzo, al quale, però, la vita aveva proibito di essere tale. Mi fissava con aria interrogativa e io ebbi l’istinto di fare un passo indietro. Con grande sorpresa, il giovane scoppiò in una fragorosa risata. Poi, in un italiano piuttosto impacciato, prese la parola: “Io vedo te ogni mattina che porti cibo a questi animali”. Si sforzava di usare un lessico abbastanza ricco, adeguato, ma faceva fatica. “E da tanto io voglio fare a te una domanda!”. Annuii. Ci furono diversi secondi di silenzio, in cui il giovane cercò le parole giuste per pormi una questione che, a quanto immaginavo, non sarebbe stata semplice. Mi fissò dritto negli occhi, un po’ imbarazzato, e chiese: “Perché tu, i tuoi amici, tua famiglia, abitanti di questo paese, italiani, perché voi ci trattate peggio di questi uccelli?”. Non sapevo cosa dire; cosa dovevo dire?? In fin dei conti io non avevo mai pensato di trattare le persone peggio degli animali. “No ragazzo, noi non vi trattiamo come gli animali! Non siamo tutti cattivi come pensate voi; non siamo tutti razzisti!”. “Tu sei sicuro di questo?”. “Certo che sono sicuro! Io ne sono convinto! Tratto tutti allo stesso modo, italiani e stranieri, neri e bianchi!”. Mi fissò, e disse: “Beh, scusa signore, ma lo stai facendo ora!”. Lo guardai con severità, ma dopo attimi di silenzio riprese. “Ora tu, ascolta me. Ti dico una cosa. Come ho detto prima, io ti vedo tutti i giorni venire qui a dare cibo a animali. Oggi ti ho chiesto questa cosa, e tu sei rimasto sorpreso; si dice così, no?! Voi, quando uscite dai bar, ci guardate con rabbia e ci lanciate ai piedi il resto del caffè, perché troppa fatica per rimetterlo in portafoglio. E così tu porti pane secco a uccelli perché non hai più fame! Solo che a uccelli dai cibo con sorriso; a noi date piccoli soldi con rabbia!”. Rimasi lì, fermo, a riflettere su queste ultime frasi. Forse perché aveva fatto esempi di vita quotidiana, così concreti, così elementari, ma quelle parole mi fecero cambiare idea. E se avesse avuto ragione? In fondo, che cosa c’era di sbagliato nelle sue parole? Niente, proprio niente. Forse, senza volerlo, siamo un po’ tutti così, senza rendercene conto. Lo guardai, e l’unica cosa che riuscii a dirgli fu un semplice ma sincero “Scusa”. Questa non è una fiaba, e non possiamo certo pensare che gli trovai un posto di lavoro, una casa, una moglie. No. Lui continuò a vendere ombrelli nelle giornate uggiose e io ad andare in ufficio e a presentare i mie progetti nelle conferenze. Quello che cambiò quel giorno fu il mio modo di vedere, il mio modo di pensare. E se in seguito capitò di incontrarlo in riva al lago, di dividere il pane, di nutrire gli uccelli insieme e scambiare due chiacchiere ero ben contento di farlo. Sapete chi mi ricordava? Mi ricordava tanto i racconti del signor Guido. In qualche modo, era un po’ la stessa cosa: anche lui lottava per la propria vita e per quella dei suoi cari.

VIOLA BAZZALI  (I. I. S. A. Greppi, Monticello B. za)

Secondo classificato


Finchè, una mattina, tutto questo scomparve. Nessuno era stato risparmiato; ogni uccello era stato catturato e probabilmente ora stava dorandosi in una padella, mentre i resti dei nidi distrutti venivano sepolti da enormi mucchi di terra sollevati da una ruspa, dove prima si trovava il lago. Le sue acque erano state prosciugate per fare spazio al nuovo complesso di villette a schiera “La Fontanella”, come recitavano le lettere nere stagliate, dure nelle loro linee precise di stampato maiuscolo sul fondo bianco di un cartellone pubblicitario, affisso nei pressi di ciò che ormai poteva solo essere chiamato cantiere. Il tutto era corredato da fotografie dei progetti e del risultato finale. Tutto uguale. Villa, cancello, villa. Villa, cancello, villa. Sorrisi; un sorriso rassegnato ed ironico. Era così che andava. Non era certo la prima volta che mi imbattevo in esempi dell’incapacità umana di accettare ciò che non era ‘normale’, ciò che non era conforme alla vita della famiglia-tipo. Il ‘diverso’ andava emarginato, la personalità andava soppressa. Un ragazzo amante della lettura doveva nasconderlo, parlare di calcio e vantarsi con gli amici di improbabili conquiste, per non essere targato come ‘sfigato’. Un omosessuale arrivava a sposare una donna e ad avere figli con lei, pur di non essere etichettato come ‘frocio’. Le parole fanno male in eterno, non è vero? Scossi la testa, incamminandomi verso la stazione. Era triste vedere distrutto quel piccolo angolo di verde, di vita, divorato dal grigio delle case. O forse, chissà, magari le persone si vergognavano di sé stesse, vedendo semplici animali vivere una così rispettosa vita in comunità, quando loro, la specie ‘superiore’, ne era incapace. Trovai subito un posto vuoto, e trascorsi il viaggio attendendo solo la voce che avrebbe annunciato la mia fermata, osservando il paesaggio scorrermi davanti agli occhi. Forse era una considerazione eccessiva, la mia. Non tutte le persone si comportano così, dopo tutto. C’era – chi rispettava l’altro senza curarsi di colore della pelle, religione o orientamento sessuale; c’erano – comunità armoniose e variegate come quella ospitata dall’ormai inesistente laghetto. Gracchiando metallica ed incolore, la voce sentenziò il raggiungimento della mia destinazione. Milano, Porta Garibaldi. «Tempo per un’altra giornata di lavoro» sospirai, gli occhi ancora annebbiati dal sonno. Sbadigliando, accesi il computer, cominciando ad archiviare lettere e a rispondere alle telefonate dei clienti, cercando di essere cordiale nonostante la maleducazione di molti. In Italia il rispetto pare essere proprio una dote rara. Avendo vissuto a lungo all’estero, so cosa vuol dire parlare di ‘atmosfera migliore’. Ora dopo ora, finalmente terminai la mia giornata lavorativa, e potei andare a casa. Camminando per la strada rumorosa, l’aria invasa dalle note della musica proveniente dai locali dove la gente già ballava, posai lo sguardo sul parco che ormai non c’era più. Il terreno era pronto; presto avrebbero iniziato a costruire. Distolsi lo sguardo; era normale. Non era il primo e non sarebbe stato l’ultimo, e non c’era nulla che potessi fare. Aprii la porta di casa, lasciando il cappotto sull’attaccapanni, prima di dare un bacio rapido a mia moglie, intenta a preparare la cena. Le dico sempre di lasciare che me ne occupi io, almeno qualche volta, ma lei adora cucinare; e io non so certo dire di no al suo sorriso. «Ciao, Andrea! Oggi pasta al sugo; e niente storie, eh!» esclama allegra, più rivolta ai bambini che a me, i quali stanno arrivando di corsa, in una gara a chi mi saluterà per primo. Sembra essere un pareggio; a darmi il bentornato a casa è un vivace «Ciao, mamma!», esclamato in coro dai due.

ALESSANDRA PENNATI (Liceo Classico A. Manzoni, Lecco)

Terzo classificato


Finché, una mattina, una di quelle mattine in cui l’aria è così tersa da pizzicarti i polmoni e il cielo è di quel bianco freddo tipico solo dell’inverno, mi sono svegliato con l’idea di voler fare un regalo a mia moglie, privandomi dell’egoistica esclusiva di conoscere solo io quella deliziosa comunità. E così quella mattina ho svegliato Cinzia e le ho detto di fare piano, per non svegliare i nostri figli. Le ho preparato il caffè poi, senza dimenticare il sacchetto, siamo andati. Ormai tutti sanno di che sacchetto parlo, e persino dove andassimo. Da un po’ di tempo meditavo questa fuga complice con lei, se non altro almeno per schizzare di colore il grigio di quella solitudine sì piacevole, ma che talvolta assumeva un tono troppo greve e mi faceva credere di esser solo un povero matto prossimo alla pensione. Quel giorno invece i matti erano due, lì in riva al lago: uno che presentava gli animali e l’altra che si diceva lieta di far la loro conoscenza. Hai sposato proprio la donna giusta per te!, diranno alcuni sarcastici burloni. Me lo ripeto ogni giorno della mia vita, replico io, e sono serio: mi sento fortunato a tal punto che alle volte non mi spiego come mi sia accaduto. Al presentarsi di ogni volatile, Cinzia ritrovava non so quale entusiasmo infantile ed associava ciascun pennuto a un’immagine: «Il becco bianco di quelle folaghe in mezzo a tutto quel piumaggio nero mi ricorda la talare di un parroco!», esclamava, o ancora «Quegli svassi sembrano avere i capelli in piedi dei ragazzetti che rombano in motorino la sera tardi e non ci fanno mai dormire: non pare anche a te, Andrea?» A me pareva, pareva proprio, e a quel punto ha preso anche me l’entusiasmo di fare quel gioco e ho cominciato anche io a trovar tutte queste analogie. A ogni nuova intuizione sorridevamo, e le guance di Cinzia si erano così rosate tra il freddo e l’ilarità che davano un tono non solo al suo viso, ma anche a quel cielo lattiginoso che mi accompagnava tutte le mattine ma che non mi era mai sembrato così bello. Al turno delle anatre, quando ormai avevamo passato in rassegna tutta la compagnia, proprio non riuscivamo a capacitarci di quello che avevamo notato: io col mio cappello verde, il maglione bruno sopra la camicia immacolata e il mio cappotto grigio, e lei avvolta in una giacca nocciola; sembravamo proprio una coppia di germani reali. Ridevamo così forte che quella comunità solitamente così affettuosa, un po’ per la mancanza di altro pane e un po’ per il chiasso, dopo poco si era dispersa tutta indispettita; ma io e Cinzia non ce ne curavamo, anzi guardavamo divertiti il disegno che i loro voli tracciavano sulla tela immacolata sopra le nostre teste. E dopo un po’ che fissavamo il cielo, come spesso ci succede siamo balzati dal faceto al serio: e abbiamo cominciato a chiederci perché e percome loro volassero, e noi invece avessimo avuto un destino diverso; e se anche noi avendo le ali saremmo approdati in riva al lago per qualche tozzo di pane; o se piuttosto non avremmo sfruttato quel grande dono per girare il mondo, come sognavamo di fare da ragazzi. Ecco, se qualcuno sta già pensando che a quel punto io e mia moglie abbiamo cominciato la solita tiritera delle coppiette un po’ attempate, quella che fa «Ma ti ricordi quando dicevamo questo, e quando volevamo fare quell’altra cosa? E ti ricordi quando è accaduto così, e quando invece è andata cosà », si deve proprio ricredere. Io ho guardato lei, e ho pensato che al ritorno dal lavoro le avrei comprato qualche rosa che si intonasse con quelle sue guance così colorite. E lei ha guardato me, e probabilmente stava controllando mentalmente se nella dispensa c’erano gli ingredienti per prepararmi il mio piatto preferito. Noi ci amiamo così.

ERICA CRIVICICH (Liceo Classico A. Manzoni, Lecco)

Quarto classificato


Finché, una mattina accadde. Come tutte le piccole cose che sanno cambiarti la vita, accadde. Così, semplicemente, e l’emozione mi travolse senza preavviso lasciandomi stupito, stordito, basito, morto. Ogni mattina gettavo il pane pregustando la trionfale maestà con cui i cigni si sarebbero fatti largo tra gli altri volatili, ogni mattina restavo stupito della loro magnificenza, della loro leggiadria, della loro autorità e nel contempo della loro bellezza. Ma tra loro, tra quei cigni maestosi, ce n’era uno se possibile ancor più meraviglioso degli altri. Li sovrastava tutti di una spanna e li dominava con la sua voce acuta. Camminava con una baldanza quasi umana, con un portamento regale, quello di chi sa di essere il migliore, rubacchiava agli altri uccelli e scacciava possibili rivali spalancando le sue enormi, magnifiche ali candide. Poi quella mattina accadde. Vidi da lontano, scendendo per il sentiero nel canneto, una macchia bianca, come un enorme ciottolo tra i tanti sassolini. Strizzai gli occhi per vedere meglio, forse mi aspettavo di veder scomparire quel biancore abbandonato sulla battigia, speravo fosse solo un sacchetto della spazzatura lasciato da qualche passante incivile, speravo fosse una suggestione della mente assonnata nell’esplosione di colori dell’alba. Mi rifiutavo di crederci, avevo paura di avvicinarmi e di constatare che era proprio così come appariva, ma lentamente ordinai alle mie gambe di muoversi. Giunsi sulla spiaggia, ed era lì. Il cigno era lì. Lui, il Magnifico, quello che tutti i giorni scacciava gli altri, quello che camminava baldanzoso, che aveva l’apertura alare più grande di tutti gli altri. Era lì abbandonato, derelitto, le ali piegate innaturalmente, le piume un tempo candide e leggere spettinate e rigide, di un bianco grigiastro che tutto suggeriva fuorché la purezza. Che dire di quel becco giallastro, di quegli occhi allucinati, di quelle mosche che ronzavano felici e facevano libagioni con la carne di quella creatura? Quella creatura che soltanto un giorno prima, solo uno, intimidiva tutti e suscitava venerazione e rispetto. Riflesso nell’acqua colorata di luce rosa, mi vidi incominciare a piangere un pianto sconsolato sulla tomba inesistente di quel magnifico volatile. Fu così, piansi, consegnai al lago tutte le lacrime che avevo dentro, piangevo per il cigno, piangevo per la morte, piangevo per la vita ingiusta, piangevo per me. Fu tra quelle lacrime che lo capii, che la vita non aveva senso, che non siamo altro che un agglomerato di atomi destinati a non essere, a essere il perfetto niente, materia prima assemblata a caso, cibo per mosche. Fu tra quelle lacrime che sentii che l’umanità è stupida, che perde tempo in guerre e litigi, spreca attimi, posticipa e finisce con il non vivere quando potrebbe godere di ogni istante, potrebbe condividere e fare del bene, potrebbe cercare di acchiappare il suo angolo di cielo in terra prima di finire nello stomaco vorace di un vermicello. Fu tra quelle lacrime che capii che stavo sbagliando, che lasciavo correre possibilità, che il cuore di mia moglie si stava indurendo perché non sapevo dimostrare di amarla, che non avevo mai sentito i miei figli dirmi “ti voglio bene”, che stavano crescendo e non li conoscevo, che li amavo ma non lo facevo capire, che la mia vita non era che polvere, e quella di mia moglie, e quella dei miei figli. Fu lì che lo capii e cercai di cambiare, fu lì che trovai me stesso, di fronte a quel cigno morto. Quella mattina non successe nulla, solo altri granelli nella clessidra inesorabile del peggior serial killer mai esistito, solo il sussurro del tempo che ti rammenta, mellifluo, memento mori. E da allora me lo ricordo. E da allora vivo come se ogni istante fosse l’ultimo.

MICHELE PIATTI (Liceo Classico A. Manzoni, Lecco)

Quinto classificato


Finché, una mattina, trovai delle ruspe e delle draghe intente a sollevare e manomettere il terreno circostante la riva, come se non ci avesse già pensato Madre Terra a sistemare minuziosamente ogni zolla. Ma la cosa peggiore fu che non vidi alcun uccello. Così fu quel giorno e quello dopo ancora, per ben due settimane, al termine delle quali lessi sul giornale che i lavori, autorizzati dal sindaco in persona, riguardavano la costruzione di un impianto balneare per l’ incremento del turismo. E vedendo sulla mensola tutti i sacchetti di pane, conservati in attesa del ritorno dei miei compagni piumati, mi venne da piangere. Sono sciocco , voi mi direte, ma quell’incontro mattutino con gabbiani e anatre era l’ unico momento della giornata in cui sentivo una serenità autentica e semplice, quasi i cinguettii e gli starnazzi fossero per me un antidoto alla piattezza quotidiana. Ma ormai gli uccelli se ne erano andati. Qualche giorno dopo, passando in macchina davanti al municipio, vidi un’ agitazione di contestatori e ambientalisti. Sono sempre stato mite, ma quella volta non ci pensai su due volte: abbandonai l’ auto nel mezzo della strada e mi intromisi nella mischia. Dovetti comportarmi da buon contestatore, infatti venni preso dai carabinieri e condotto alla caserma. Lì subii un interrogatorio piuttosto lungo. Il maresciallo stava ascoltandomi quando entrò all’ improvviso un appuntato. “ Cosa vuoi?” chiese burbero il primo. “ Ci sono fuori degli uccelli” disse balbettando il secondo. “ E allora, che problema c’ è? “ sbraitò il superiore “C’ è che mi guardano male….in cagnesco…” Bastò un occhiata fuori dalla finestra per accorgersi che non si trattava di un gruppetto di piccioni, ma di una massa enorme di ali e becchi. Un assortimento di tutte le specie del luogo aveva occupato i cornicioni e i davanzali della piazzetta. Erano venuti per me…avevano capito che volevo aiutarli! La mia gioia fu interrotta dallo squillo del telefono. Il maresciallo alzò la cornetta e trovò il sindaco dall’ altro capo ( lo capii dal colore del suo volto che diventava man mano olivastro). Il primo cittadino diede disposizioni perché l’ anormalità degli uccelli non desse nell’ occhio e ordinò di scacciarli nel modo meno appariscente. Non sarebbe stata una bella pubblicità per la sua lista. Dalla finestra potei godermi i tentativi che si protrassero per tutto il pomeriggio. Inizialmente si fece evacuare la piazza con la scusa di “manutenzione fogne”. Si tentò con del mangime, con le sirene, con dei colpi, intervenne pure il sindaco stesso. Presente i cartoni di Tom e Jerry? Ecco, per quanto bizzarro possa sembrare la situazione era proprio simile. Chiamarono pure un ornitologo che si vantava di sapere parlare agli uccelli. Si intrattenne a discutere per mezzora con un gallo cedrone; dovette dirgli qualcosa di poco carino perché venne preso a beccate in testa. Infine uscii dalla caserma e, passando davanti al sindaco, gli dissi: “ Ci pensi bene al progetto della spiaggia”. Come mi fui allontanato, gli uccelli in totalità si alzarono in volo e sparirono nel cielo. Il sindaco, tornato a casa, avrebbe continuato a guardare con paura e sospetto il suo canarino domestico. Purtroppo il progetto fu ultimato lo stesso e gli uccelli non comparvero più da quelle parti. I sacchetti di briciole vennero buttati via. Avevo perso tempo per una buona causa. Oh mondo, così ostile agli ideali! Adesso sono un vecchio con qualche acciacco e una vita normale alle spalle. Ma mi affaccio al balcone e cosa vedo? Gli uccelli di quegli anni felici volano verso di me e… mi sollevano!Uno stormo di gabbiani, di folaghe e di oche mi porta verso l’ alto, la luce….vedo la Terra da qui, ormai è un puntino nell’ universo. Forse sarebbe questo il segreto: l’ uomo dovrebbe avere la forza di agire da individuo ma in collettività per qualcosa, non importa cosa… Solo così riuscirebbe a librarsi in alto, volando via dalle nefandezze di questo mondo.


 

CLASSIFICATI DAL 6° AL 14° POSTO:

ALESSANDRO PAONESSA (Liceo scientifico G. B. Grassi, Lecco)
MIRIAM FEZZI (Liceo scientifico G. B. Grassi, Lecco)
MAROUA ZAHER (Liceo scientifico G. B. Grassi, Lecco)
ANNA MASCELLANI (Liceo Scientifico G. B. Grassi, Lecco)
ALBERTO MASOLINI (Istituto Leopardi, Lecco)
GAIA HARDER (I. I. S. G. Bertacchi, Lecco)
MATILDE BOLLINI (Liceo classico A. Manzoni, Lecco)
ROSITA BURIOLA (Liceo Artistico M. Rosso, Lecco)
ELENA VASSENA (Casa degli Angeli, Lecco)